L’Europa e il conflitto di Gaza: peso limitato, poche buone opzioni
La risposta iniziale dell’UE al conflitto tra Israele e Hamas è stata caotica. A seguito delle atrocità di Hamas contro i civili israeliani il 7 Ottobre, il Commissario europeo all’Allargamento, Olivér Várhelyi, ha annunciato in maniera unilaterale il taglio degli aiuti UE all’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania, decisione immediatamente smentita dai suoi colleghi e poi di fatto annullata. Allo stesso tempo, la Presidente della Commissione UE Ursula von der Leyen ha attirato molte critiche con la sua visita a Israele non concordata con gli Stati membri, e con la sua riluttanza a chiedere a Israele di rispettare il diritto internazionale umanitario durante le sue operazioni contro Hamas.
Il 15 ottobre, i leader Europei sono finalmente arrivati a una posizione comune sottolineando “il diritto di Israele a difendersi in linea con il diritto umanitario e internazionale” e allo stesso tempo affermando “l’importanza di garantire la protezione di tutti i civili in ogni momento in linea con il diritto umanitario internazionale”. Ma resta da vedere per quanto l’UE riuscirà a mantenere una posizione unita sul conflitto.
Il fatto che il dibattito sul ruolo dell’Europa in questa crisi si sia concentrato principalmente sulle dinamiche interne nasconde la povertà di opzioni che l’Europa ha per affrontare il conflitto in corso. In primo luogo, l’Europa non ha influenza per negoziare il rilascio degli ostaggi. La Turchia, l’Egitto o il Qatar sono in una posizione molto migliore per mediare, sia sugli ostaggi che su un possibile cessate il fuoco.
In secondo luogo, l’Europa non ha vera influenza sulle scelte che Israele compirà su come condurre le operazioni contro Hamas. La reazione israeliana sarà determinata principalmente dall’opinione pubblica, da considerazioni militari e dal grado di sostegno politico e militare fornito dagli Stati Uniti. Solo Washington ha la possibilità di convincere Israele, ad esempio, che una massiccia e prolungata invasione via terra di Gaza sarebbe estremamente rischiosa e controproducente.
In terzo luogo, sarà difficile per gli Europei persuadere l’Egitto ad aprire i suoi confini, consentendo agli abitanti di Gaza di trovare ospitalità nel suo territorio – anche se questa è operazione davvero ardua perfino per Washington. L’Egitto teme che l’ingresso di centinaia di migliaia di persone possa creare un rischio per la propria sicurezza, trasformando la penisola del Sinai in un rifugio per gruppi di terroristi e quindi ponendo le basi per futuri attacchi Israeliani sul proprio territorio. Allo stesso tempo l’Egitto teme che se i palestinesi lasciassero Gaza, Israele non gli permetterebbe di tornare.
Anche se gli europei possono avere un’influenza limitata sul conflitto, non possono però sottrarsi alle sue conseguenze. Molto dipende dalle prossime mosse di Israele. Un’invasione di terra di Gaza su larga scala amplierebbe il conflitto, spingendo forse Hezbollah a entrare in guerra dalla sua base in Libano e destabilizzando profondamente il Paese e l’intero scenario regionale. Probabilmente il conflitto si estenderebbe anche alla Cisgiordania, indebolendo ulteriormente l’Autorità Nazionale Palestinese e innescando un’operazione israeliana anche in quella regione: il che avrebbe conseguenze dirette sulla Giordania, soprattutto se i combattimenti spingessero i civili a fuggire in quella direzione. In Iraq è già elevato il rischio che gruppi estremisti portino attacchi contro le forze NATO impegnate nella missione di addestramento nel Paese.
La risposta dell’Iran al conflitto sarà molto importante nel determinarne le conseguenze regionali. Teheran ha minacciato ritorsioni nel caso in cui Israele effettuasse un’operazione terrestre a Gaza. Quindi, un’offensiva di terra israeliana non solo potrebbe provocare la discesa in campo di Hezbollah, ma potrebbe anche innescare una escalation nel Golfo Persico che tra l’altro, per l’Europa, avrebbe pesanti conseguenze per l’approvvigionamento di energia, dato il ruolo importante del Qatar nella fornitura di gas e quello dell’Iran nella vendita di petrolio.
Anche se ciò si potesse evitare, il ruolo dell’Iran nel finanziare Hamas metterà a dura prova l’embrionale distensione tra Stati Uniti e Iran emersa negli ultimi mesi. In seguito alle atrocità di Hamas, Gli Stati Uniti hanno negato a Teheran l’accesso ai 6 miliardi di dollari recentemente sbloccati con un accordo per il rilascio di alcuni prigionieri. Biden sarà sottoposto a forti pressioni domestiche per intensificare l’applicazione delle sanzioni USA sul petrolio iraniano e tagliare le esportazioni di Teheran. A quel punto l’Iran potrebbe decidere di raddoppiare i propri sforzi per sviluppare un’arma nucleare, calcolando che ha poco da perdere e che gli Stati Uniti sono distratti dalla guerra.
Il conflitto a Gaza avrà anche ripercussioni domestiche per gli Stati Europei, e anzi sta già avendone. La percezione che l’Europa stia favorendo Israele, ormai diffusa e difficile da cambiare, può facilmente alimentare estremismo e radicalizzazione sia tra le comunità musulmane che vivono nei Paesi europei, sia tra quelle mediorientali e magrebine, innescando una nuova ondata di terrorismo in Europa. Questo a sua volta rafforzerebbe le forze politiche anti-immigrazione e islamofobiche in molti Stati membri, e aumentare la popolarità di partiti come l’Alternaitive für Deutschland in Germania o il Rassemblement National in Francia, specialmente in vista delle elezioni Europee del 2024. Queste stesse forze politiche verrebbero rafforzate se un’intensificazione del conflitto portasse ad un afflusso in Europa di rifugiati da Gaza o da altre regioni coinvolte.
Sarebbe poi un errore sottovalutare le conseguenze della guerra a livello globale. Washington nega che il conflitto nel Medio Oriente possa essere una distrazione dalla guerra in Ucraina, e sostiene che gli Stati Uniti possono gestire entrambi i conflitti. Biden ha già formulato l’equazione tra Putin e Hamas nel suo discorso del 19 ottobre. Tuttavia, le risorse statunitensi, e la volontà del Partito Repubblicano di spenderle, non sono illimitate. Inoltre, Washington dovrà prestare attenzione non solo al conflitto in sé, ma anche affrontare la miriade di problemi che la guerra potrebbe creare o esacerbare. Come minimo la guerra in Israele distrarrà molti funzionari e diplomatici americani dalla situazione in Ucraina. Lo stesso discorso è purtroppo vero anche per l’Europa.
Allo stesso tempo, l’idea che i Paesi europei, e l’Occidente più in generale, non siano disposti a fare nulla di concreto sulle violazioni del diritto internazionale umanitario da parte di Israele rafforzerà la percezione che i Paesi occidentali sono colpevoli di ipocrisia e di applicare doppi standard. I diplomatici faticheranno a contrastare queste accuse dato che la posizione dell’Occidente sul conflitto israelo-palestinese è per molti Iaesi sempre stata la prova del nove della tesi sull’ipocrisia occidentale. Ottenere sostegno per l’Ucraina in sedi internazionali come l’ONU diventerà più difficile.
Anche se gli europei avranno un’influenza limitata sul conflitto, possono comunque contribuire a evitare il peggio. Lavorare con alcuni partner regionali e con gli Stati Uniti per persuadere Israele a ripristinare le forniture di acqua ed elettricità a Gaza e fornire sostegno umanitario attraverso l’Egitto è essenziale per evitare una catastrofe umanitaria a Gaza. Offrire maggiore sostegno diplomatico o economico ai vicini di Israele li aiuterà ad affrontare le conseguenze del conflitto. I Paesi europei che hanno forze militari nella regione, come il Regno Unito, possono contribuire a dissuadere Hezbollah dall’intervenire nel conflitto. E anche la retorica dei leader europei determinerà la ricaduta della guerra all’interno dell’Europa.